Premessa: articolo lunghetto. Ho scritto un po’ di cose interconnesse (come tutto quando si impara a vedere il mondo con le lenti intersezionali del femminismo), cose che ho sentito-pensato stimolata dalla mia città ma che mi hanno portata a viaggiare molto con la mente, soprattutto in Palestina. Provo a condividere queste riflessioni in 10 punti tutti collegati tra loro, sperando di rendere il discorso abbastanza fluido… nonostante lo spazio di un articolo e l’urgenza di pubblicare adesso. Li elenco subito, così magari puoi scegliere di andare drittə al punto che più potrebbe interessarti oppure decidere di interrompere la lettura già qui. Intanto, grazie per leggere almeno l’indice e se poi arrivi in fondo… non esitare a scriverci la tua critica! 🙂
- Una critica guastafeste
- Perché boicottare un festival
- Cura invece di coraggio!
- Il coraggio per le donne e persone lgbtqia+ non è una scelta eroica bensì ordinaria resistenza al patriarcato
- Il colonialismo è il patriarcato a livello internazionale
- Si chiama GENOCIDIO
- Un altro genere di coraggio
- A proposito di destra e sinistra
- A proposito di femminismo e festival
- Raccogliere invece di seminare!
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1. Una critica guastafeste
Questa critica al festival Seminare Idee (in particolare alla sua prima edizione in corso) è un tentativo di ragionare sull’ennesimo prodotto culturale confezionato nelle sale del potere: in questo caso, quelle di Fondazione Cassa di Risparmio di Prato e Comune di Prato, con il patrocinio e contributo di Regione Toscana, alcuni sponsor (tra i quali un’impresa edile ed un gruppo bancario) e vari partner culturali (tra cui la Diocesi) – qui l’elenco completo. La critica parte dalla domanda: a cosa serve il solito festival istituzionale che semina comoda cultura dominante attraverso la replica di format pensati per attrarre media, consumatori e turisti? Invece di raccogliere idee generate dal territorio e nutrire pratiche della comunità abitante, attraverso percorsi di co-progettazione e logiche di sostenibilità, ancora una volta si è scelto modi e modelli patriarcali.
Un altro festival, l’ennesimo festival nel Paese dei Festival che dovrebbe fare più attenzione alla sostenibilità come ci racconta L’Almanacco di TrovaFestival su “Patrimonio culturale e sostenibilità” pubblicato da Altreconomia nel 2024 (e scaricabile gratuitamente).
Un altro festival a Prato: per chi, per cosa e come? Su quali bisogni è stato pensato e costruito? Quale il suo impatto ambientale? Quale cosmovisione vuole raccontare? Quale la sua utilità sociale? Quale processo di autocoscienza, decostruzione e trasformazione intende stimolare? Quali consapevolezze desidera coltivare? E per generare quale cambiamento?
Inoltre, in che modo le istituzioni di una città multietnica come Prato intendono coinvolgere la comunità abitante, se si organizza un evento rivolto esclusivamente a chi vive nel privilegio di conoscere la lingua italiana? Su questo punto mi ha fatto riflettere un commento dell’amica e compagna Alice: “La stragrande maggioranza dell’offerta culturale a Prato non mostra affatto l’idea che dovrebbe essere offerta a tuttə, cittadini e cittadine di Prato ma anche alle 125 nazionalità (o quante sono precisamente?) che abitano qui. Gli eventi spesso o quasi sempre non prevedono servizi di mediazione culturale, nessuna facilitazione linguistica; manca proprio l’impegno di co-costruire un’offerta culturale ampia, con temi e contenuti pensati per un reale coinvolgimento delle tante comunità di Prato, invece sistematicamente escluse da eventi etnoposizionati e inaccessibili. Come creare spazi ed eventi “plurali” perché possano essere attraversati da tutte le comunità pratesi? – Una domanda che dovrebbe porsi chi organizza grandi eventi in un contesto multietnico, soprattutto quando a sostenerli e finanziarli sono istituzioni ed enti pubblici.
2. Perché boicottare un festival
Quale senso e significato ha oggi, nel 2025 e qui, nel cosiddetto Occidente, partecipare ad un evento per ascoltare “i grandi nomi della cultura, della scienza e dello spettacolo” – come si legge sul sito di Seminare Idee Festival? Perché dovrei voler sentire in una piazza, museo o teatro chi già posso ascoltare o leggere tutti i giorni trattandosi di “grandi nomi” che occupano pagine di giornali, libri, salotti, schermi e bacheche varie? A cosa serve sentire dal vivo la voce di chi già possiamo ascoltare nei podcast, alla radio, in tv, sui social, o leggere nei libri e giornali? Potrebbe essere buona pratica da parte dei “vip” accettare inviti ai soliti talk proponendo all’organizzazione di invitare allo stesso panel altrə pensatorə che, per varie ragioni, sono ancora poco conosciutə o vengono marginalizzatə, magari cedendo parte del proprio cachet. E potrebbe essere altra buona pratica da parte invece del pubblico porsi il dubbio di boicottare un evento mainstream anche semplicemente per non sovraffollare e stressare un luogo, riducendo così il proprio impatto ambientale. Come per qualsiasi nostra attività, anche per il consumo di eventi dovremmo chiederci: ne ho davvero bisogno? Perché, ad esempio, io dovrei andare a sentire cosa dice ad un talk (magari pure trasmesso online e/o videoregistrato) la giornalista Francesca Mannocchi di cui già conosco e seguo con amore il lavoro oppure Milena Gabanelli che seguo da sempre con altrettanta ammirazione, dalla sua direzione di Report a quella di Dataroom? Quale bisogno dovrei soddisfare esattamente? Quello narcisistico di dire “anch’io ci sono” o “anch’io c’ero” sui propri social?
Questo weekend sono a Prato e – proprio per le riflessioni che condivido in questo articolo – boicotterò il festival Seminare Idee. Coltiverò invece la mia coscienza con il libro Economia femminista – che non è un’altra branca dell’economia politica ma un modo radicalmente diverso di intendere il mondo! – appena pubblicato da Alegre, curato da Cristina Carrasco Bengoa e Carme Díaz Corral, tradotto e introdotto da Marcella Corsi. Il primo capitolo si apre con il contributo di Silvia Federici che – a proposito di coraggio, non quello degli eroi ma quello della sorellanza – scrive: “L’economia femminista è un esempio della forza del femminismo. Il femminismo ha dato alle donne così tanto coraggio, così tanta fiducia nella loro esperienza e nella giustizia della loro lotta da portarle a tentare l’assalto al cielo: l’assalto all’economia, che è, tra tutte le discipline, la più vicina alle strutture di potere che dominano la nostra società.”
E ovviamente, tra un capitolo e l’altro, eserciterò il mio diritto-dovere di cittadina (ottenuto grazie alla lotta delle sorelle femministe suffragiste!!!) andando a votare ai Referendum su lavoro e cittadinanza.
3. Cura invece di coraggio!
Seminare Idee si dichiara “un festival di approfondimento e condivisione culturale”. Ideato e diretto da Annalisa Fattori e Paola Nobile (fondatrici dal 1989 di Delos, un ufficio stampa specializzato nel settore della cultura con sede a Milano), si articola – come qualsiasi altro festival – in “tre giornate di letture, conferenze, dialoghi e incontri” presentando – come qualsiasi altro festival – “grandi nomi della cultura, della scienza e dello spettacolo” che – come in qualsiasi altro festival – “si ritroveranno a Prato per porsi domande, stimolare riflessioni, offrire nuovi occhi per guardare il mondo che ci circonda.” Prima edizione: 6-7-8 giugno 2025. Tema: Coraggio.
Dopo aver letto il programma, salvo mi pare una sola eccezione ovvero un incontro che coinvolge straordinariamente una realtà del territorio (il collettivo Metropoplare), mi sono chiesta: e cosa c’entra tutto questo con Prato? Quale sarebbe la relazione di questo festival con il genius loci e la comunità del territorio? La sensazione è stata proprio quella di trovarmi davanti un format replicato.
La mia amica e compagna Ilenia ha infatti commentato: “Sembra voler emulare i Dialoghi di Pistoia” (piccola curiosità: fino a qualche anno fa, questo festival di antropologia culturale nato nel 2010 si chiamava Dialoghi sull’Uomo ma in seguito ai Dialoghi sulle Donne organizzati dalla nostra associazione culturale CCT-SeeCity nel Borgo Museo di Pistoia tra il 2019 ed il 2021, proprio in risposta ai dialoghi cittadini, ha cambiato nome!).
Ed io: “Già, sembra copiarlo pure nella promozione del volontariato come forma comunemente accettata di lavoro culturale… Sia mai retribuire dignitosamente chi lavora nei beni e nell’industria culturale in questo Paese!”. Cultura in Italia è roba da volontariato o precario sfruttamento [per approfondire il tema segnalo l’attivismo del collettivo Mi Riconosci]: il sistema ci ha abituato a questo e invece di cambiarlo, continuiamo a spingere le giovani generazioni a migrare in Spagna, Germania, Regno Unito, etc.
Il sito del festival dice: “Un ruolo primario lo avranno i giovani che parteciperanno insieme agli adulti in una virtuosa alleanza tra generazioni.” Capito, giovani? Noi adulti – oltre a lasciarvi in eredità un mondo a pezzi dove forse chi potrà permettersi il lusso della terapia (nonostante gli stipendi fermi agli anni ’90) riuscirà a curarsi dall’ecoansia – abbiamo pure il “coraggio” di sfruttarvi con la scusa dell’alleanza. Ma quale “alleanza” tra chi finora ha vissuto e continua a vivere in modo insostenibile, fregandosi della sopravvivenza e del benessere delle future generazioni, e chi oggi ha ancora tutta la vita davanti ma si ritrova a respirare PFAS, bere microplastiche, mangiare pesticidi, spalare fango, evacuare case e convivere con l’ansia di fenomeni, processi ed eventi sempre più gravi e frequenti come siccità, alluvioni, inondazioni, salinizzazione del terreno, scarsità idrica… dovuti al riscaldamento globale ovvero alla crisi climatica innescata dalla rivoluzione industriale avviata in Occidente con la folle idea di uno sviluppo senza limiti, in un pianeta limitato? Quale alleanza tra generazioni nel Capitalocene?
Altro che “Coraggio” – parola chiave scelta per questa prima edizione di un festival che, dalla comodità dei propri salotti bianchi e borghesi, vorrebbe seminare questo sentimento. Onestamente, non so immaginare una scelta più infelice. Ragionare invece della “Cura” sarebbe più che necessario: dobbiamo prenderci cura dei nostri territori, della nostra casa-ambiente, dei nostri corpi-mente, delle vulnerabilità di tuttə gli essere viventi, animali umani e non umani. Spetta a tuttə, a partire da noi adultə che dovremmo dare il buon esempio ma non lo sappiamo fare: dobbiamo allora imparare ad ascoltare le generazioni più giovani che ci insegnano, ad esempio, l’antispecismo. Io, ad esempio, mi sono avvicinata all’antispecismo qualche anno fa grazie ad un gruppo di giovani attivistə incontratə al FəmFest, un festival transfemminista in un piccolo paese delle Marche. Averlə ascoltatə e poi aver approfondito con letture e documentari, mi ha trasformata. Così ho fatto la scelta etica e politica di cambiare alimentazione e diventare gradualmente vegana, per la salute mia e del pianeta! Se non siamo noi stessə a prendere posizione e agire il nostro privilegio-potere di scegliere in modo consapevole e responsabile nella nostra vita-quotidianità-comunità, perché dovremmo aspettarci consapevolezza e responsabilità dal resto della società di cui siamo parte? Il cambiamento deve partire da noi.
Non mi piace il “Coraggio” raccontato attraverso storie di eroi ed eroine, come se fosse qualcosa di eccezionale a cui tendere in modo singolare e verticale, un io in guerra/competizione contro il mondo. Non mi piace l’individualismo e la solitudine che emergono tra le righe del programma di questa prima edizione: esattamente il contrario del femminismo! – direbbe la filosofa Márcia Tiburi. Non mi piace il tema, fuori luogo e fuori tempo; non mi piace l’approccio patriarcale, il modo in cui si è scelto di trattarlo. C’è persino un talk intitolato “Il coraggio di salvarsi da soli“.
“Cura” invece è una parola plurale e orizzontale che avrebbe aperto altri scenari e offerto l’occasione di ragionare su comunità, pratiche di cooperazione e politiche di interdipendenza. [A proposito, una lettura: Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza di The Care Collective, pubblicato da Alegre nel 2021]. Esiste un vivacissimo dibattito transnazionale sul concetto di “democrazia della cura” nel mondo attivista ed accademico. Seminare Idee ha mancato l’occasione di unirsi a questa urgenza, evidentemente a causa del grande assente di questo festival: il femminismo.
Facendo una ricerca sul sito, le parole “femminismo, femminista o femministe” non compaiono nel programma di questa prima edizione dedicata al “coraggio”. Compare invece una volta l’aggettivo “femminile” nell’espressione “mondo femminile” come Dio patriarcato da sempre comanda, spaccando la realtà in due: secondo l’ideologia del binarismo di genere, esiste il mondo, quello maschile-neutrale-normale, e poi il mondo “altro” rispetto alla “norma maschile” considerata neutra. Nel solito testo si legge anche l’aggettivo “patriarcale” in “famiglia patriarcale borghese“, riferito ad un’Italia di metà ‘900 e quindi ad un contesto storico del passato. La parola “patriarcato” è assente mentre ritroviamo l’aggettivo “patriarcale” solo un’altra volta in “una società patriarcale e fondamentalista” nella descrizione di un talk sul coraggio della disobbedienza delle donne iraniane, in lotta per la propria libertà contro l’attuale regime. Bene ma allora dovremmo trovare il coraggio di nominare e ragionare sul patriarcato anche di casa nostra e sostenere la lotta femminista sempre e ovunque, a partire da qui e adesso, dove tuttə possiamo e dobbiamo fare la nostra parte per cambiare le cose; parlare invece solo di ieri, come se fosse una questione del passato, o di altrove, rischia di sminuire la questione oppure ridurla ad una forma di suprematismo-paternalismo bianco. Il patriarcato esiste ovviamente in modo diverso nei diversi contesti ma esiste ancora oggi, anche qui. La lotta femminista resiste ancora oggi, anche qui, in Italia. Perché non ne parliamo? Se non partiamo da noi, dall’autocoscienza, come insegna il femminismo, non possiamo costruire alleanze sincere, nel rispetto dell’autodeterminazione.
Che dire poi della scelta di aprire il festival con una lezione sul “coraggio” di due soliti maschi (Roberto Saviano e Sandro Veronesi) in pieno stile MANPANEL o ancora peggio dell’idea di invitare altri due soliti maschi (Giorgio van Straten e Walter Veltroni) a spiegarci il ruolo delle donne nella Resistenza? Un talk esempio di MANSPLAINING da manuale. “Seminare il Patriarcato Festival” – ha commentato un amico. Perché, ad esempio, non invitare Benedetta Tobagi con il suo libro “La Resistenza delle donne” (Einaudi, 2022)? Oppure perché non coinvolgere lə professionistə della SIS – Società Italiana delle Storiche?
Seminare Idee mi appare un festival istituzionale calato dall’alto solo per compiacersi e compiacere, per intrattenere un pubblico-elettorato adulto bianco, cattolico e borghese, per raccontare storie di singoli eroi/eroine di un mondo binario, maschile e femminile, un modo dove conta il sé, l’individuo, l’ego; un festival per ricevere applausi scontati dalla propria bolla di pubblico-elettorato che partecipa per sentirsi confermate le proprie idee e dirsi “che bravi noi” a parlare/ascoltare di cosa è giusto/ingiusto nel mondo dalle comode poltrone di un teatro, senza fare autocoscienza, senza autocritica, senza mettere in discussione il proprio stile di vita privilegiato e insostenibile, complice indifferente della Sesta estinzione di massa in corso.
Un pubblico-elettorato che da questo festival – immagino – uscirà identico a prima: consumatore seriale di aperitivi in cui sfoggiare nuovi abiti destinati ad alzare le vette delle “montagne” di capi occidentali in Ghana ed altre terre lontane, lontane dalla nostra “civiltà” che non vuole vedere discariche e nemmeno allevamenti, per continuare serena e spensierata a riempirsi di crostini toscani con fegatini di pollo, mortadella pratese e bistecca alla fiorentina.
Se proprio vogliamo parlare di “coraggio”, iniziamo allora dal coraggio di CAMBIARE.
E cosa potrebbe fare ad esempio un Comune? Formazione sull’antispecismo e l’agricoltura biologica, mense antispeciste in tutte le strutture pubbliche (scuole, università, ospedali, etc.) con menù vegani e prodotti bio del territorio, catering di cucina vegana e bio agli eventi pubblici, incentivi per attività di agricoltura biologica e ristorazione vegana. Promuovere un’educazione alimentare etica, sostenibile e sana significa ridurre il nostro impatto ambientale – [che possiamo calcolare qui] – e per lo Stato ovvero per noi cittadinə significa anche risparmiare sui costi del sistema sanitario (infatti l’OMS raccomanda diete a base vegetale). Si chiama prevenzione.
Due libri, entrambi di Ed Winters pubblicati in Italia da Sonda: Questa è propaganda vegan e le altre bugie dell’industria della carne (2023) e Come discutere con chi mangia carne (e convincerlo ogni volta) (2025).
Un documentario: Food for Profit realizzato in modo indipendente dalla giornalista Giulia Innocenzi ed il regista Pablo D’Ambrosi (2024).
4. Il coraggio per le donne e persone lgbtqia+ non è una scelta eroica bensì ordinaria resistenza al patriarcato
Quando esco voglio sentirmi libera, non coraggiosa – dice un telo che svolazza nel cortile della Casa Internazionale delle Donne di Roma [quello nella foto di copertina e in fondo all’articolo]. Un pensiero-desiderio non scontato: per essere compreso serve consapevolezza femminista, quindi educazione femminista, quindi cultura femminista.
Libere, non coraggiose è il titolo di un libro sull’urbanistica di genere di Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro (LetteraVentidue, 2024), sulle donne e la paura nello spazio pubblico.
Vogliamo essere liberə, non coraggiosə! – lo abbiamo scritto nel manifesto femminista di gioia libera tuttə intitolato MANIFESTA e IMMAGINA, in questo frammento:
IMMAGINA come
praticare convivenze delle differenze
riprogettare città senza centri, mura e grattacieli
disegnare paesaggi urbani che evocano vulve accoglienti
invece di erezioni prepotenti
meno boschi verticali, più orti orizzontali
vogliamo architetture per comunità, non famiglie isolate
nell’illusione capitalista dell’autosufficienza nucleare
fare monumenti solo se desiderati dalla comunità
e sostenibili per l’ambiente
vogliamo città aperte, sane e sicure, anche di notte:
vogliamo essere liberə, non coraggiosə!
vogliamo esercitare il nostro diritto di manifestare
senza avere paura della violenza istituzionale
vogliamo anche respirare senza ammalarci
camminare tra alberi, piante e fiori:
no al cemento, sì al compost!
rigenerare, restaurare, coltivare, curare
occupare se serve, soccorrere sempre
vogliamo luoghi di incontro e prossimità di servizi
ovunque, dalle periferie alle terre alte
vogliamo essere Mediterraneo-Appennino-Alpi
senza confini
Gli studi di genere insegnano a vedere il mondo nella sua complessità ovvero da altri punti di vista rispetto allo sguardo dominante presente nella cultura patriarcale. Dal programma del festival Seminare Idee noto l’assenza di questa consapevolezza: la prima edizione – dedicata al tema del “coraggio” – non considera affatto il coraggio come obbligo per chi non è uomo maschio etero cis.
In un’occasione come questa, sarebbe stato fondamentale ragionare insieme su come creare una società in cui donne e persone lgbtqia+ possano LIBERARSI dalla necessità quotidiana di essere coraggiose, per resistere e sopravvivere in una cultura fortemente sessista, maschilista, discriminatoria, violenta, omicida, guerrafondaia… in una parola, patriarcale.
Sarebbe stato interessante ed utile, ad esempio, capire QUANTO CI COSTA LA VIRILITÀ a Prato, prendendo spunto dalla ricerca accademica delle due economiste Ginevra Bersani Franceschetti e Lucile Peytavin che hanno poi pubblicato il libro Il costo della virilità. Quello che l’Italia risparmierebbe se gli uomini si comportassero come le donne (Pensiero Scientifico Editore) vincendo il Premio nazionale di divulgazione scientifica 2023. Sarebbe anche molto utile MISURARE IL PATRIARCATO (oggi esistono gli strumenti per farlo) per conoscere e governare il proprio territorio.
5. Il colonialismo è il patriarcato a livello internazionale
“Il colonialismo è il patriarcato a livello internazionale” – mi sono segnata questa frase della Relatrice speciale delle Nazioni Unite per il territorio palestinese occupato Francesca Albanese che lo scorso 26 marzo 2025 ha incontrato più di 3.000 studenti in tutta Italia attraverso un webinar organizzato dalla rete Docenti per Gaza, con l’obiettivo di introdurre la questione arabo-israeliana da un punto di vista storico e culturale, rispondendo alle tante domande raccolte dalle circa 180 classi che hanno aderito e partecipato. La lezione è stata poi resa disponibile a tuttə sul sito www.docentipergaza.it dove oltre a vedere-ascoltare la registrazione della lezione è possibile leggere la definizione data dalla relatrice alle 10 parole chiave scelte per spiegare la drammatica attualità: 1. Colonialismo – 2. Antisemitismo – 3. Palestina – 4. Occupazione militare – 5. Diritto Internazionale – 6. Apartheid – 7. Autodeterminazione – 8. Resistenza – 9. Tensione tra diritto e politica – 10. Genocidio. Infine, per approfondire, si trova una bibliografia-sitografia-filmografia. APPROFONDIAMO. Magari anche insieme, nei nostri festival.
Mentre scrivo, dodici attivistə di vari paesi del mondo stanno attraversando il Mar Mediterraneo a bordo della Madleen per raggiungere Gaza con il progetto Freedom Flotilla Coalition ed il motto “We sail until Palestine is free”. Obiettivo portare aiuti ma soprattutto sollecitare i governi del mondo ad agire per garantire un passaggio sicuro per tutte le navi umanitarie; inoltre, chiedono ai media e a tutte le persone di coscienza, ovunque, di rifiutare il silenzio e agire per Gaza. Il comunicato stampa del 1° giugno 2025, pubblicato appena dopo la partenza dal porto di Catania, dice: La Freedom Flotilla Coalition (FFC) ha varato la Madleen, una nave civile che ora naviga verso Gaza con a bordo difensorə dei diritti umani, organizzazioni umanitarie e internazionali, in aperta sfida al blocco illegale e genocida di Israele. Intitolata alla prima e sola pescatrice di Gaza nel 2014, la Madleen simboleggia l’incrollabile spirito di resilienza palestinese e la crescente resistenza globale all’uso di punizioni collettive e alle politiche deliberate di fame da parte di Israele. Il suo varo avviene appena un mese dopo che i droni israeliani hanno bombardato Conscience, un’altra nave umanitaria della Freedom Flotilla, in acque internazionali al largo di Malta, a sottolineare sia l’urgenza che la pericolosità di questa missione per rompere l’assedio di Gaza. A bordo ci sono volontari provenienti da diversi paesi, tra cui la parlamentare europea Rima Hassan e l’attivista per la giustizia climatica Greta Thunberg. La nave trasporta rifornimenti urgenti per la popolazione di Gaza, tra cui latte in polvere, farina, riso, pannolini, assorbenti femminili, kit per la desalinizzazione dell’acqua, forniture mediche, stampelle e protesi per bambini. Quindici anni fa, Israele ha condotto un attacco illegale e mortale alla Mavi Marmara, in cui dieci volontari umanitari sono stati uccisi mentre cercavano di consegnare aiuti a Gaza. Questa missione è la continuazione di quella tradizione: il rifiuto di arrendersi al silenzio, alla paura o alla complicità. L’assedio di Gaza è mantenuto non solo dalla potenza di fuoco israeliana, ma dall’inazione globale. Nonostante i rischi, crediamo che la resistenza civile diretta sia ancora importante, che la solidarietà attiva possa cambiare la bussola morale del mondo. Ecco perché Madleen salpa. La Freedom Flotilla Coalition sottolinea che questo è un atto pacifico di resistenza civile. Tutti i volontari e l’equipaggio a bordo della Madleen sono addestrati alla nonviolenza. Salpano disarmati, uniti dalla convinzione comune che i palestinesi meritino gli stessi diritti, libertà e dignità di tutti gli altri.”
Il giorno dopo, anche le Nazioni Unite hanno rilasciato un comunicato stampa per chiedere un passaggio sicuro per la nave; sui profili social dellə attivistə è possibile seguire il racconto del viaggio ostacolato e capire come partecipare a distanza ovvero come sostenere la causa condividendo i loro annunci e scrivendo agli enti governativi. Sui media italiani non ho letto quasi niente a proposito ma non mi stupisco; un’altra frase che mi ero appuntata durante la lezione di Francesca Albanese è questa: “la stampa italiana è riconosciuta al mondo come una barzelletta”.
Attraverso il recente annuncio social dell’attivista ed eurodeputata Carola Rackete invece, ho scoperto che esiste anche il progetto di una Marcia globale verso Gaza, una marcia in solidarietà con il popolo palestinese che avrà inizio dal Cairo il 12 giugno: persone da tutto il mondo si troveranno in Egitto per camminare insieme verso il confine di Rafah e chiedere la fine del genocidio che sta accadendo per mano dello Stato di Israele con la complicità dei governi occidentali.
Il simbolico è politico e in questi casi anche davvero coraggioso. Grazie per il vostro coraggio.
E pensare che nel frattempo, nel mondo e pure in Italia, c’è ancora chi ha paura ad usare quella parola.
6. Si chiama GENOCIDIO
Tornando alla lezione di Francesca Albanese organizzata da Docenti per Gaza, ci tengo a riportare la spiegazione della decima ed ultima parola chiave scelta per introdurre la questione palestinese alle scuole: Genocidio.
Il genocidio non è un crimine impossibile da provare, dovrebbe essere un crimine impossibile da commettere con tutti gli strumenti che abbiamo oggi. Il termine genocidio è stato coniato da un giurista ebreo dopo l’Olocausto, per il quale l’Olocausto stesso era la riproduzione di tecniche di sterminio usate dall’Europa nei paesi colonizzati. Il genocidio è la distruzione sistematica di un gruppo etnico, nazionale o religioso. Le azioni di Israele a Gaza rientrano in questa definizione – lo provano, tra le altre cose, il linguaggio utilizzato dai leader israeliani e le condizioni imposte alla popolazione palestinese. Il genocidio a Gaza non è l’unico, ma è il più grave tra i casi di operazione di genocidio in corso nel mondo perché tutti ne hanno testimonianza nei propri telefonini e perché i nostri governi stanno sostenendo militarmente e politicamente l’operazione israeliana in Palestina. Tra Palestina e Israele non è una guerra, è una forma di scontro coloniale: non ci sono due eserciti, non ci sono due stati. C’è un popolo che ha commesso sicuramente violenza, ma ne commetterà ancora se non si rimuove la causa prima di tale violenza, che è l’oppressione, l’occupazione militare e il sistema di apartheid. Israele vuole sfollare quello che rimane della Palestina: questo è genocidio.
In un libretto comprato al Museo nazionale della Storia dell’Immigrazione a Parigi e intitolato Le 100 parole delle migrazioni (edizione 2023), c’è anche la parola Genocidio. Traducendo dal francese, riporto il testo:
Il termine “genocidio” (dal greco genos, “razza”, e dal latino cide, “uccidere”) si riferisce allo sterminio fisico intenzionale, sistematico e premeditato di un gruppo umano o di parte di esso a causa delle sue origini, nazionalità, razza, etnia o religione. Il genocidio include attacchi intenzionali alla vita, all’integrità fisica o mentale, l’imposizione di condizioni di esistenza che mettono in pericolo la vita del gruppo, l’impedimento delle nascite e il trasferimento forzato di bambini al fine di raggiungere tale obiettivo. Il termine “genocidio” fu coniato nel 1944 da Raphaël Lemkin, un rifugiato ebreo di origine polacca e professore di diritto internazionale negli Stati Uniti. Coniò il termine per riflettere la portata e la natura dei crimini nazisti. Sebbene non ancora utilizzato ai processi di Norimberga (1945-1946), il termine entrò a far parte del vocabolario del diritto internazionale con l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del testo della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (9 dicembre 1948). È ora definito dall’articolo 6 dello Statuto della Corte Penale Internazionale.* L’ONU riconosce tre genocidi: il genocidio armeno commesso dall’Impero Ottomano nel 1915-1916; il genocidio ebraico commesso dai nazisti dal 1941 al 1945; e il genocidio dei Tutsi commesso dal regime Hutu in Ruanda nel 1994.
Infine, riporto l’Articolo 6 dello Statuto della Corte Penale Internazionale (1998), sopra citato, che definisce il “Crimine di genocidio”:
Ai fini del presente Statuto, per crimine di genocidio si intende uno dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:
a) uccidere membri del gruppo;
b) cagionare gravi danni all’integrità fisica o psichica di membri del gruppo;
c) sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso;
d) imporre misure volte ad impedire le nascite all’interno del gruppo;
e) trasferire con la forza bambini appartenenti al gruppo in un gruppo diverso.
Ancora oggi in Italia molte persone di destra e di sinistra hanno PAURA di pronunciare questa parola. MI FATE ******.
[NOTA] A proposito di colonialismo, la mia amica-compagna Alice consiglia il libro L’identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco di Ugo Fabietti (Carocci, 2013) in cui si racconta etnograficamente la costruzione di identità contrapposte per mano dei colonizzatori, quindi anche la guerra e il genocidio che sta proseguendo ora in Congo (nel silenzio internazionale, come scrive Valigia Blu) legato allo sfruttamento delle miniere di Coltan, interesse del capitalismo digitale e tecnologico occidentale (un capitolo tratta proprio la genesi fra Tutzi e Hutu); questa lettura, commenta Alice, le ha aperto la mente “sul mondo coloniale prima, postcoloniale dopo e neocolonialismo economico in tempi attuali.”
7. Un altro genere di coraggio
In Noi siamo tempesta (Salani, 2019), Michela Murgia introduce così il suo libro:
Le librerie e gli schermi grandi e piccoli della nostra infanzia sono pieni di storie, ma queste storie, a guardarle da vicino, si somigliano un pochino tutte. La stragrande maggioranza racconta la vicenda di un eroe solitario con un destino glorioso, spesso abbandonato da chi doveva accudirlo (come Pollicino e Mosè), cresciuto alla periferia di qualcos’altro (come Harry Potter o Luke Skywalker) e chiamato ad affrontare mille prove per affermarsi (come Ulisse e Ercole). Su questi eroi abbiamo sognato tutti e tutte e spesso ci sono apparsi speciali perché dotati di talenti o poteri unici grazie ai quali avrebbero salvato se stessi o il mondo. Erano eroi con poche amicizie che restavano sempre gregarie, affiancandosi ma mai intaccando il loro speciale compito eroico. Le battaglie che affrontavano si svolgevano in un mondo descritto come difficile e ostile, pieno di pericoli e nemici. Vite non per tutti, quelle degli eroi. Avventure per persone speciali. Supereroi, creature con un destino unico che erano facili da ammirare, ma impossibili da imitare. Queste storie vengono considerate educative e per molti versi lo sono, ma a cosa educano con esattezza? Il messaggio sottinteso è che siano I’x factor, l’eccellenza individuale, il talento raro di singole persone a fare la differenza davanti alle sfide del mondo. È davvero così? Alcune volte sì, ma la statistica insegna che la storia si fa esattamente in modo inverso: nella stragrande maggioranza dei casi non sono i geni solitari a cambiarla, ma il lavoro di squadra e la condivisione dei percorsi. Che cosa implica insegnare ai bambini e ai ragazzi che il mondo va letto solo dentro la cornice dell’eroismo solitario? Immedesimarsi in quel modello di personaggio che valori radica, che modalità d’azione sviluppa, che sguardo sulla realtà educa? Le caratteristiche di queste storie sono sempre le medesime: nove volte su dieci l’eroe è maschio, non gli manca mai il nemico, il modello di risoluzione dominante è bellico e la gloria del vincitore si ottiene al prezzo dell’annichilimento dei vinti. Dentro questa tipologia di storie si cresce più competitivi che collaborativi, più guardinghi che fiduciosi, più rivendicativi che riconoscenti. Si cresce psicologicamente predisposti a difendersi. E se a cambiare fossero le storie che ci insegnano da bambini? Se anziché farli addormentare sognandosi soli contro il mondo e l’uno contro l’altro dessimo loro avventure dove diventare potenti insieme? Le storie di questo libro sono tutte vere e allo stesso tempo tutte inventate. Sono vere perché le imprese meravigliose di cui parla sono accadute sul serio e succedono ogni giorno di continuo. Sono inventate perché quasi nessuno le racconta, come non fosse importante tramandarci le storie che ci hanno visti protagonisti insieme, senza eroi a cui dare il compito di essere migliori di noi. Mi sono presa la libertà di immaginare dialoghi, azioni e talvolta anche personaggi e per questo i racconti non sono proprio fedeli alla cronaca, ma non importa: sono fedeli alla vita, che ha un’armonia sempre corale.
La parola CORAGGIO per me è CORALE e oggi mi fa pensare ai movimenti di dissenso e protesta, alle manifestazioni organizzate nonostante la minaccia di uno Stato terrorista e genocida, di una dittatura, di una democratura, di un governo neofascista. La parola CORAGGIO mi fa pensare alle maree e moltitudini di corpi che manifestano nonostante le sistematiche repressioni e violenze istituzionali di una democrazia patriarcale: in Italia non si rischia (forse) la morte ma botte e ferite da manganellate rese legali, abusi e umiliazioni in caserma, denunce da chi detiene potere, multe, pene, punizioni, oppressioni, intimidazioni, sono cosa certa. E con la nuova legge sulla “sicurezza”, siamo ancora di più uno Stato di polizia, uno Stato delle forze dell’ordine. Forza e Ordine, in una parola: Fascismo.
La parola CORAGGIO mi fa pensare alle lotte e rivolte nella Storia e nell’attualità, all’attivismo delle persone che si uniscono per condividere e trasformare la rabbia davanti le ingiustizie del mondo in progetti di cambiamento culturale, economico, sociale. La parola CORAGGIO mi fa pensare al cambiamento seminato dai cuori che scelgono l’etica dell’amore, direbbe bell hooks, consapevoli della propria interdipendenza e della cooperazione necessaria alla vita, ovvero a tutto ciò di cui il sistema patriarcale e capitalista, che gerarchizza-divide-isola, ha paura.
In una relazione del 2014 (tradotta in italiano da Angela Balzano), la filosofa Rosi Braidotti scrive: Il femminismo rifiuta il tono moralista e dogmatico delle ideologie dominanti, siano esse di sinistra o destra, a favore della gioiosa creazione di atti di insurrezione. La politica femminista è critica e al contempo affermativa, mira alla contro-produzione di un presente alternativo e alla metamorfosi della soggettività. Gli aspetti spontanei e creativi della pratica femminista viaggiano di pari passo con una profonda forma di generosità, che si esprime nell’etica del no-profit, fondata sulle istanze dell’attivismo micro-politico. Questo approccio umile e ancora sperimentale tenta di cambiare le nostre comuni modalità di relazione all’ambiente, le nostre norme, i nostri valori culturali e sociali, i nostri immaginari e i nostri corpi. Questo approccio punta a cambiare noi stessi, e in questo tentativo di trasformazione del sé risiede la manifestazione più pragmatica dell’immanenza radicale della politica femminista, uno dei nostri contributi più importanti alla costituzione della democrazia radicale. […] Il femminismo esprime una radicale aspirazione alla libertà, il suo obiettivo è affrontare e demolire le forme stabilite e istituzionalizzate di identità di genere e le relazioni di potere in cui prendono concretezza. Questa politica di gioiosa affermazione di contro-discorsi […] è un intervento incisivo sulla brutalità e la banalità del potere. Incoraggia la contro-produzione di affetti e desideri politici alternativi. Il perseguimento della felicità politica è collettivo, non individualista e non a scopo di lucro. Si tratta di un progetto politico che è orientato al compito di costruire orizzonti sociali di speranza, ovvero alla ricerca e alla diffusione di alternative sostenibili all’economia politica schizoide del capitalismo avanzato, alla sua brutale materialità e alla sua violenza omicida. […]
8. A proposito di destra e sinistra
Se c’è una cosa che più della destra fascista mi fa arrabbiare è l’ipocrisia della sinistra. Questo progetto, gioia libera tuttə, è fiorito nella città di Prato da un evento chiamato “oltre la 194” ovvero due giornate (18-19 Novembre 2023) organizzate insieme a Libera di Abortire ed una rete di realtà femministe del territorio, unite dalla volontà di raccogliere firme per superare gli ostacoli della legge 194 del 1978. Dopo una serie di inutili incontri che ci hanno illuso, facendoci perdere molto tempo, email senza risposte scritte ma telefonate perché verba volant, alla fine l’amministrazione comunale precedente (governata come ora dal PD) non solo non ci ha concesso spazio e patrocinio ma nemmeno ha partecipato all’evento: in teoria ed in privato tanti sorrisi, in pubblico ed in pratica la totale assenza e mancata presa di posizione.
Caro ipocrita e codardo PD, altro che coraggio! Inutile prendere a parole le distanze da Ministra Roccella & Co. se poi nei fatti si finanziano associazioni cattoliche anti-scelta e quindi antiabortiste che fanno divulgazione antiscientifica e violenza psicologica mentre ergono monumenti ai bambini non nati e progettano cimiteri dei feti che a volte riescono pure a realizzare; una mappa a cura della giornalista Jennifer Guerra indica anche Prato per la presenza del monumento voluto dal Centro di Aiuto alla Vita “in occasione dei 40 anni dalla approvazione della legge 194 che ha legalizzato l’aborto in Italia” e realizzato all’interno del cimitero della Misericordia da uno scultore maschio, Enrico Savelli, ovviamente: chi meglio di un uomo può rappresentare il ventre di una mancata maternità!?
Proprio da qui, dal diritto fondamentale di abortire in sicurezza e serenità per tutte le persone con utero, è nata gioia libera tuttə…
Come scrive bell hooks in Il femminismo è per tutti, la lotta femminista è gioia liberatrice e questo significa anche guastare le feste esplicitamente o implicitamente patriarcali in cui si dà spazio alla Diocesi e non alle organizzazioni femministe della città! Esiste pure un Tavolo Pari Opportunità ed LGBTQIA+: perché non è stato coinvolto nella progettazione del festival Seminare Idee? Perché non è previsto nemmeno un solo singolo talk sul femminismo in un festival “di approfondimento culturale”?
E se questa gravissima mancanza – a mio avviso consapevolmente voluta per compiacere alla fascia di elettorato adulto bianco cattolico borghese consumatore – accade in una città dove dal 2023 esiste un Festival Femminista nato e cresciuto invece dal basso, dal territorio… Se questa scelta accade in un momento storico in cui da una parte stiamo vivendo la “quarta ondata” di un femminismo – che attiviste della “seconda ondata” (anni ’70) come la giornalista Gloria Steinem raccontano come movimento di liberazione sempre più plurale e planetario – e dall’altra invece il diffondersi nel mondo occidentale di un neofascismo con tutto il suo violento portato patriarcale di maschilismo, binarismo, sessismo, razzismo, abilismo, specismo…
Se questo accade qui ed ora, qui ed ora sono il tempo ed il luogo in cui arrabbiarsi anche per questo ovvero per la grave mancata occasione di portare la rabbia e la gioia trasformative della lotta-cultura femminista – che da almeno due secoli genera teorie e pratiche per la liberazione di tutte le persone, oggi di tutti gli animali umani e non umani – nel discorso pubblico-politico di un festival “di sinistra”.
9. A proposito di femminismo e festival
Il 13 aprile 2025, in seguito all’assemblea nazionale di Non Una Di Meno, sulla sua pagina facebook, Lea Melandri scrive: “Sono meravigliata di quanto resti invisibile anche a persone politicamente impegnate la presenza in Italia di un movimento come NUDM che ininterrottamente da dieci anni porta in piazza centinaia di migliaia di persone, che sulla violenza contro le donne ha incalzato senza sosta la coscienza di un Paese profondamente maschilista, che sulla guerra, la sua radice nel patriarcato, i suoi nessi con tutte le forme di dominio, dal classismo al razzismo al colonialismo fa analisi e mobilitazioni quasi del tutto ignorate. Neanche un minimo di curiosità per una generazione di figlie e nipoti che tengono viva l’idea di un mondo più vivibile, la sfida che è stata del femminismo degli anni Settanta.”
In un Paese profondamente maschilista come il nostro, mentre i nostri figli-fratelli-compagni-mariti-amici continuano a stuprare ed uccidere le nostre sorelle, persino i festival sedicenti “di approfondimento culturale” confezionati a “sinistra” continuano ad IGNORARE il femminismo.
Per la cultura femminista, il coraggio è corale, il coraggio è sorellanza. In un talk femminista immaginario, dentro la prima edizione dedicata al tema del “coraggio” di un festival come Seminare Idee, che invece ha scelto di ignorare il femminismo, io ad esempio avrei invitato attivistə che fanno ricerca accademica su questi temi a raccontare la storia di Ni Una Menos, il movimento transfemminista e transnazionale nato nel 2015 in Argentina e dal 2016 presente anche in Italia con Non Una Di Meno.
Capisco che per una mente patriarcale sia difficile da concepire un movimento o una comunità senza leader ma storie come queste esistono eccome e dobbiamo imparare a raccontarle! Se si ignorano, basta chiedere ad espertə in Studi di genere.
La narrazione dominante privilegia storie eccezionali di eroi guerrieri. Chi oggi fa cultura, ad esempio organizzando un festival, deve avere questa consapevolezza e la responsabilità di cambiare narrativa. Il saggio Cosa può un compost. Fare con le ecologie femministe e queer di Antonia Anna Ferrante (Luca Sossella Editore, 2022) si conclude con la Teoria narrativa della sacca che Ursula K. Le Guin scrisse nel 1986 per proporre un modello narrativo alternativo a quello tradizionale dell’eroe-cacciatore, basato sull’uso di armi e della violenza, quindi sulla linearità temporale della “freccia-assassina”, della conquista e distruzione, quando invece la Storia umana si è sviluppata prima di tutto attraverso la creazione di contenitori per “raccogliere semi, radici, gemme, germogli, foglie, noci, bacche, frutta e cereali”… Sacche, borse, ceste e reti sono i primi dispositivi culturali che hanno consentito agli animali umani di raccogliere, trasportare, condividere, conservare, vivere; poi l’invenzione tecnica della nostra specie è arrivata alle armi ovvero a strumenti di dominio-oppressione-distruzione-guerra-genocidio. Quando inizieremo a raccogliere e raccontare quest’altra Storia fatta di persone e non eroi?
10. Raccogliere invece di seminare!
Nella città di Prato, dal 2023 esiste il Festival Femminista. Ideato e promosso dall’associazione Ipazia con un approccio intersezionale, in tre anni è cresciuto in termini di organizzazione, contenuti e pubblico; durante un mese intero (febbraio), propone un programma diffuso sul territorio di incontri culturali, presentazioni di libri, spettacoli, corsi di formazione e laboratori creativi, grazie al coinvolgimento di un’ampia rete locale che si riconosce in un femminismo plurale.
Davvero tutto l’interesse che merita da parte del Comune di Prato – che, come dimostra Seminare Idee, se vuole quando vuole è in grado di trovare fondi per la cultura! – è un misero Patrocinio? Davvero le istituzioni non riescono a coglierne il prezioso valore, soprattutto oggi, in un mondo governato sempre più dal neofascismo? Davvero le istituzioni non hanno intenzione di raccoglierne fiori e frutti in modo da condividerli ancor di più con tutta la cittadinanza, magari in un percorso costante che coinvolge anche le scuole?
Davvero alle istituzioni non interessa nutrire questa pianta in modo che possa crescere quanto necessario per portare ossigeno femminista ovunque (ad ogni livello della società, a partire dalle istituzioni che hanno bisogno di fare formazione femminista, primo step fondamentale se si vuole davvero attuare il famoso sconosciuto gender mainstreaming)? Davvero le istituzioni non vogliono prendersi la responsabilità di sostenere questa realtà affinché la sua forza trasformativa non resti solo un evento ma diventi un progetto di città femminista?
Come si può essere “di sinistra” e non vedere quanto preziosa sia questa opportunità offerta dalla comunità abitante per generare cambiamento culturale-economico-sociale?
Invece di SEMINARE, le istituzioni dovrebbero imparare a RACCOGLIERE e coltivare idee e risorse, teorie e pratiche, che esistono nel proprio territorio, fatte da realtà e reti del territorio. lnvece di calare dall’alto un programma con il solito format ed i soliti “grandi nomi” (la banalità patriarcale di questa espressione è imbarazzante) per organizzare un festival in sostanza uguale a qualsiasi altro festival… nell’Italia dei Festival, si potrebbe praticare co-progettazione.
Seminare Idee Festival potrebbe avere luogo ovunque, in qualsiasi città italiana. Quale sarebbe la relazione con il territorio pratese? Praticamente un non-festival, direbbe Marc Augé. Ci sono progetti realizzati dalla comunità creativa locale che invece meriterebbero seria attenzione, ascolto (come minimo) e sostegno concreto dalle istituzioni. Senza copiare ovviamente (come successo in passato, a mio avviso, nel caso TAI-TIPO) ma riconoscendo, valorizzando, sostenendo la comunità attiva-creativa del territorio. Cultura non calata dall’alto ma costruita dal basso. Cultura sostenibile. Cultura intesa non a episodi, eventi da consumare ma come impegno costante e lungimirante.
Cultura che non è qualche giorno di riflettori sulla città grazie ai soliti “grandi nomi” da pacchetto-propaganda ma cultura intesa come percorso di de-costruzione perché sì, serve la rivoluzione in questo mondo di sistematica violenza, guerra normalizzata, dio capitalismo, consumismo, crisi climatica, colonialismo, patriarcato. E serve ieri, oggi è già tardi ma qualcosa possiamo sempre salvare. Senza consapevolezza femminista però, il cambiamento culturale-sociale-economico-politico di cui il mondo ha disperatamente bisogno, qui ed ora, non è possibile. Quando imparerà la Sinistra italiana a non temere la parola FEMMINISTA ed uscire dai confortevoli salotti borghesi?
Guardare alla cultura, teorie e pratiche del femminismo intersezionale aiuterebbe la Sinistra a sapere che un altro mondo è possibile, da immaginare e progettare. È necessario e urgente studiare/applicare politiche con un approccio gender mainstreaming ad ogni livello della società. Tra le prime cose, impareremmo a non calare più dall’alto l’ennesimo contenitore di contenuti ad alto interesse mediatico e basso/nullo legame con il territorio.
Non c’è più tempo per discorsi da salotto tra la solita gente, soprattutto per chi governa.
Se proprio vogliamo parlare di coraggio, in questa parte di mondo privilegiata, allora dobbiamo iniziare a CAMBIARE TUTTO.
[…]
IMMAGINA come
il femminismo plurale e planetario
possa mutare, cambiare, trasformare il mondo intero
col suo movimento di liberazione
che da almeno la fine del Settecento
rivolta dopo rivolta… fa la rivoluzione
più pacifica della Storia
IMMAGINA come
condividere pratiche di empoderamento
esercizi di autodeterminazione
atti di insubordinazione epistemica
parole di rovesciamento
IMMAGINA come
riscrivere la Costituzione
con una prospettiva femminista,
transfemminista, ecofemminista,
antispecista, postumanista
di una Repubblica fondata sulla cura
che riconosce i diritti di tutte le famiglie
e protegge tutte le genitorialità
deistituzionalizzando l’amore,
liberandolo dall’eterocisnormatività
e monogamia come unica via
tutelando desideri e volontà
Se non stiamo zittə
siamo forza collettiva di testimonianze
e onde di trasformazione, siamo
marea, moltitudine, non una di meno
se rivendichiamo spazio e tempo
per sentire, ascoltarsi e ascoltare
rumorosamente passeggiare
stare insieme e progettare
ma anche leggere e scrivere
nel silenzio di una stanza tutta per noi
studiare, pensare, capire, dubitare
chiedersi sempre del progresso: per chi e come?
e del sapere: chi lo ha detto?
e della legge: chi l’ha fatta?
IMMAGINA come
prenderti tutta la gioia di vivere
(dagli orgasmi al giusto reddito!)
scegliere nella libertà della consapevolezza
e consapevolmente metamorfosare te stessə
e il mondo attorno, lottando – e ballando! –
in ogni luogo-momento che desideri occupare
IMMAGINA un’umanità femminista
e se vuoi, come puoi, MANIFESTA!
