A un certo punto ci rendemmo conto che per ricostruire una nuova vita era necessario scendere a patti con la condanna della maternità.
Siamo venute al mondo donne e come tali non possiamo scamparvi.
Alcune di noi ci hanno avuto a che fare perché hanno dovuto adoperarsi per evitarla, altre perché la precarietà, le condizioni fisiche o sociali hanno impedito loro di coltivarla, altre ancora non se lo sono chieste, ma hanno conosciuto il pentimento prima con la violenza della sala parto, poi con la frustrazione del carico familiare. Infine ci sono quelle di noi che l’hanno cercata e portata avanti con fatica, che si sono incontrate con quelle che, nel diventare giovani adulte, iniziavano anche loro a farci i conti.
Abbiamo capito che a salvarci sarebbe stata una maternità rivoluzionaria. Le più anziane sostenevano che troppi tentativi, poi dimostratisi fallimentari, erano già stati fatti e noi, ugualmente scoraggiate dalla fatica della lotta, non abbiamo potuto fare altro che arrenderci alla storia, raccogliere quanto di glorioso riuscivamo a ricordare e semplicemente rassegnarci.
Ma tra le più giovani di noi a quel punto si è risvegliato qualcosa.
È arrivato un rimprovero, un rigurgito frutto della rottura del trauma generazionale di cui si erano fatte carico contro la propria volontà, e si sono incamminate senza di noi. Siamo noi che poi abbiamo capito che dovevamo seguirle.
Osservandole abbiamo assistito ad una sintesi nuova, con cui noi non avevamo ancora fatto pace. Con un duro lavoro di ricostruzione sulle loro identità sfaccettate, erano riuscite a rimettere insieme anche i piccoli pezzettini in cui avevamo vivisezionato le nostre per riuscire a comprenderle. Una nuova esperienza queer, del tutto distorta, per niente accettabile, aveva liberato le nostre vite, ci aveva permesso di sperimentare qualcosa che fino a quel momento non eravamo state in grado di immaginare, perché non ci eravamo mai fidate tanto di quel cambiamento che noi stesse avevamo provato a costruire.
Fu a quel punto che iniziò a insinuarsi in noi quella consapevolezza che non avevamo ancora elaborato: una maternità rivoluzionaria semplicemente è quella che smette di essere tale, si supera, si scardina, si ribalta. Abbiamo distrutto tutto ed eravamo pronte a ricostruire.
Inizialmente siamo partite da noi e abbiamo fatto pace con le nostre identità riassemblate. Abitare un corpo politico, normato dall’esterno, significa riconoscere che non esiste possibilità di scelta al di fuori delle uniche due alternative concesse: eseguire gli ordini o infrangere le regole. Nel costante disequilibrio tra un sufficiente livello di obbedienza che ci salvasse dall’ostracismo e una dose soddisfacente di personalità non come le altre, siamo diventate accettabili; in seguito, grazie ai primi moti di rivoluzione, abbiamo rifiutato tutto quanto potesse renderci tali. È stato così che abbiamo evitato di interrogare il nostro desiderio, consapevoli della sua sostanziale inadeguatezza di base.
Recuperare i brandelli delle nostre identità ha significato iniziare ad occupare gli spazi senza più occuparci di giustificarne i modi. Alcune di noi hanno risparmiato il tempo di una vita intera.
Per decenni abbiamo discusso di come avere un’identità politica significasse essere, di fatto, parte di una comunità politica. Lo avevamo rivendicato con rabbia e lo avevamo mostrato e dimostrato in tutti gli spazi che avevamo attraversato, senza mai premurarci di costruire in essi una comunità umana. Quando lo abbiamo fatto, facendoci spazio nella desolazione della crisi climatica e sociale che avanzava, abbiamo realizzato in poco tempo che ci potevamo ancora salvare. Le città sono diventate luoghi vivi, attraversati da strade sicure, che ora portano a centri storici accessibili, periferie in fermento, spazi che con la socialità scardinano la solitudine a cui eravamo abituate. Spazi liberati.
Abbiamo percorso le vie che erano state fino ad allora piccoli barlumi di speranza e le abbiamo moltiplicate: ora comunità locali e solidali, tenute in piedi da personalità che prima non potevano rientrare nei margini, sono il meraviglioso esempio di funzionamento che abbiamo messo in atto.
Non è stato neanche difficile liberarci della produzione, quando abbiamo smesso di consumare. Da quando il nostro impegno non è più il lavoro, ma la cura collettiva, le periferie geografiche, come quelle urbane, si sono ripopolate.
Prima hanno chiuso le fabbriche, poi finalmente abbiamo liberato anche i ristoranti. Milano è bellissima come sempre.
Naturalmente non è stato facile scardinare le regole dell’emarginazione con cui siamo state allevate.
Ci hanno cresciute con i bilanci del 20 e del 25 novembre, negando i morti di razzismo, censurando le notizie sulla rotta balcanica e sul Mediterraneo centrale. Ci hanno tolto i fondi che servivano per permetterci di frequentare l’università e poi ci hanno lasciate suicidare dalle finestre delle università.
Ci hanno promesso l’aborto solo se prima pagavamo con lo stupro, ci hanno mostrate in prima serata come oggetti di decoro disponibili per intrattenere il pubblico subendo molestie, ci hanno affamate e l’hanno chiamata vanità perché eravamo noi a digiunare. Ci hanno battezzate col senso di colpa cattolico, impedendoci di accedere a diritti costituzionali tramite le imposizioni vaticane, per poi raccontarci che era arrivato il momento di sparare al nemico, perché questo pregava in moschea.
Ci hanno chiamate pazze, incatenate ai letti, silenziate.
Ci hanno disabilizzate, ci hanno infantilizzate.
Ci hanno rinchiuse nei lager che eravamo ancora minorenni, ci hanno deportate.
Noi non abbiamo subito tutto questo.
Negli spazi di emarginazione abbiamo ricostruito quello che la violenza patriarcale e machista ci aveva tolto, come un’enorme marea globale abbiamo fatto crollare tutto, a partire dai confini, e neanche le ultime briciole di colonialismo sono sopravvissute.
Siamo venute al mondo come corpi emarginati e come tali abbiamo messo al mondo la rivoluzione.

Testo e disegno realizzati per il progetto
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