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Libertà

Racconto realizzato per il progetto "gioia libera tuttə 2024 | CALL for Feminist #CCTravellers"

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Ieri

Mi guardo allo specchio e abbasso il velo sulle spalle. I capelli si riversano su di esso lunghi, neri, copiosi, mossi. Abbassando il velo, mi avvolgono i miei larghi vestiti, che mi impediscono di muovermi, correre, vivere. 

Con i capelli faccio una lunga e corposa treccia. La accarezzo. I miei capelli sono morbidi. Sono veli che mi coprono il corpo la notte, quando questo viene depredato senza chiedere consenso. I miei capelli che lui tanto desidera, quando mi trovo rinchiusa qui, che devo coprire come se fossero l’origine del peccato originale fuori di qui. Questi capelli che non mi permettono di uscire neanche per fare una passeggiata. 

Per quanto ancora dovremo resistere? Per quanto ancora dovremo sopportare ogni passo? 

Loro non ci concederanno mai niente. Ci toglieranno sempre di più. Lo faranno in virtù del loro potere.

Non sarò mai libera in questa vita.

Afferro le forbici e le stringo. Bacio le lame affilate, so che non mi possono fare male fino a quando non sono io a impugnarle.

Mi taglio la treccia. Mi assicuro che il taglio sia sotto la nuca, che sia un taglio netto, non me ne frega nulla se è irregolare. La chioma cade ai miei piedi. Non voglio più essere afferrata per i capelli. Non voglio più che i miei capelli siano vergogna o lussuria per qualcun altro.

Faccio una prova. Comincio a stringermi i capelli con le mani. Sono ancora troppi. E allora comincio a tagliare, ancora di più, fino a quando non sono certa che nessuna mano possa riuscire ad afferarmi, a farmi incrinare la testa. 

Mi tolgo la tunica. Mi sfilo i pantaloni. Rimane solo il mio corpo segnato da cicatrici, bruciature e lividi. Non riesco a sorridere. Non c’è niente da sorridere. La libertà non è conquistata con questo taglio netto. I gesti simbolici non mi interessano e non servono a niente. Voglio vivere una vita a misura dei miei desideri. Non voglio più essere il mezzo per cui si soddisfano i desideri altrui.

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

Viene dentro il mio corpo. Sento il suo cazzo dentro di me afflosciarsi e il suo corpo cadere pesante su di me. Rimango inerme a guardare il soffitto. Come può piacergli davvero? Come può piacergli un corpo inerme che subisce?

Si gira su un fianco e corro in bagno a lavarmi. Mi faccio una lunga doccia, mi strofino la pelle e la fica. Non voglio che niente di suo rimanga in me.

“Tutto bene?”, sento dire dalla camera da letto e io non rispondo, perché sto ansimando e inizio a tremare.

Da quanto è iniziato tutto questo? Perché sto permettendo che accada? Perché mi sto rendendo soltanto uno straccio miserabile nelle mani di un uomo?

Esco dalla doccia, mi avvolgo nell’accappatoio. Mi specchio. I miei capelli cadono sul collo. I miei capelli che lui afferra e che annusa, che mi rendono così donna e femminile, secondo lui. I capelli che mi hanno insegnato a curare perché i capelli lunghi sono donna e essere donna vuol dire essere sensuale, elegante, odorare di seduzione.

Mi tolgo l’accappatoio e lo lascio cadere a terra. Non vedo altro che un corpo scopabile. Un corpo scopabile che deve rimanere tale con palestra, trattamenti, creme costose. E poi? Quando sarò vecchia? È così che funziona? Verrò usata fino a quando non si presenterà un nuovo modello giovane e laccato a sostituirmi? Il mio valore viene misurato così come si misura il valore commerciale di una macchina? Ho valore solo se molti uomini mi desiderano?

Non ho mai fatto niente che desiderasse davvero questo corpo. Ceretta, dieta, sesso per lo più miserabile e non soddisfacente. Tutto studiato. Tutto costruito affinché gli uomini possano trovare terreno facile in cui scaricarsi le palle. Quando ero adolescente mia madre mi diceva che avrei spaventato i ragazzi con quel mio viso imbronciato, con il senso di giustizia sempre sulla punta della lingua.

Da quando ho smesso di essere me stessa per lasciare posto a una versione sbiadita e stantia, un replicante del concetto di donna?

Sono piena di lividi. Lui mi fa sempre male quando vuole scopare in modo feroce e io come una stupida cagna addomesticata lo lascio fare. Non so più dire no. Non so più dare voce ai miei desideri.

Adesso basta.

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

Oggi faceva così caldo che sono uscita a correre solo con il reggiseno sportivo e i leggins corti. Grande errore. Un tipo che stava correndo nel verso opposto mi ha squadrata, ha fatto dietrofront e ha cominciato a seguirmi. Lo so, perché mi sono voltata, l’ho guardato, lui mi ha sorriso e ho abbozzato anche io un sorriso di disagio – e mi sono odiata per avere questa reazione così istintiva di compiacimento soltanto perché mi hanno insegnato così fortemente a dover mettere a proprio agio l’altra persona sempre, in ogni caso. 

Ho corso con quanto fiato avevo in corpo, cercando di non essere troppo preda e di simulare un passo cadenzato e ritmato. Mi sono ripetuta per tutto il tragitto: “Non accelerare, non accelerare, non accelerare.” Volevo soltanto sparire, non essere lì, avere la capacità di diventare invisibile, godermi la corsa e non sentirmi nuovamente in pericolo.

Ma è anche colpa mia, mi diranno, perché avrei potuto scegliere di indossare una t-shirt e un pantalone largo e invece ho deciso di indossare l’indispensabile e usare il mio corpo sotto il mio desiderio. Il mio corpo per lui che mi sta seguendo esprime consenso solo perché è qui. E si muove.

Quando arrivo vicino casa, svolto per la via opposta. Non voglio che lui scopra il mio indirizzo. Mi fermo davanti a un bar, ansimando. Ci sono questi vecchi che mi guardano come se non avessero mai visto un corpo di donna che corre, ma per il momento non ha importanza. Mi basta non rimanere sola. Voglio aspettare il tipo, farmi sorpassare. Lo vedo arrivare. Mi porto le mani sui fianchi, allargo le gambe. Cerco di simulare sicurezza. Mi guarda e anche io lo guardo fisso. Non abbasserò lo sguardo per nessuna ragione al mondo. Ha una canotta striminzita, ha dei pantaloncini. Ma nessuno lo sta seguendo. Non è in pericolo. È il padrone della strada.

Quando mi passa davanti, mi fa l’occhiolino. Io credo di avere uno sguardo stanco, incredulo, disgustato. Cosa gli ha fatto pensare dalla mia faccia che fossi contenta di questo inseguimento? 

Sono attaccata alla porta di casa, al sicuro, che ansimo e piango per lo spavento. Mi asciugo le lacrime, mi avvio verso il bagno. Doveva essere una corsa rilassante e invece, cazzo.

Apro il rubinetto della doccia, sento l’acqua che scroscia. Mi spoglio e mi guardo. Ho il corpo muscoloso, pieno di lividi perché mi piace usare questa pelle per superare i miei limiti, per correre, allenarmi, sfidarmi. È un corpo che addomestico al mio volere.

Non voglio piegarlo per il vostro fottuto piacere. Non voglio più sentirmi una preda. 

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

La pacca sul culo mi brucia ancora sulla natica. La vergogna mi infiamma il volto, mi accelera il battito cardiaco, mi fa ansimare.

Mi appoggio con entrambi le mani sul lavandino del bagno. Guardo lo scarico e vorrei poter diventare così piccola da poterci andare, scivolare giù e scappare da tutto questo.

Così tanto tempo passato ad allenarmi, per essere vista soltanto come un culo che si muove sul campo. Non riesco più a distogliere le attenzioni dal mio corpo. Non so come fare. E nemmeno tutte le risposte preparate che riesco a dare sono abbastanza, perché non vengo ascoltata. Non vorrei più uscire da questo bagno. Ma so che devo farlo. Devo camminare a testa alta, come se tutto quello che dicono e che fanno non mi ferisse ogni santa volta. Credevo che avrei potuto cambiare il mondo o anche soltanto le sorti del mio destino diventando la più brava, la migliore, la diversa dalle altre.

Volevo avere la soddisfazione di essere l’unica ad avercela fatta. Ma soltanto ora capisco che per essere al pari degli uomini, dovrei diventare come loro. Non voglio maschilimizzarmi per diventare qualcuno.

Voglio essere me. Non voglio più guardare le altre donne con sospetto. Non sono loro a rubarmi il futuro, il mio posto. Sono gli uomini a farlo.

Mi tiro su, mi aggiusto la divisa. Stringo i pugni. Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

Quella frase mi risveglia da un’ingenua illusione che mi sono costruita per tutta la serata. I miei colleghi mi hanno invitata a casa di uno di questi per una cena. Abbiamo bevuto, mangiato. Abbiamo anche fumato. Ora che ci rifletto, per tutto il tempo non hanno fatto altro che chiedermi se stessi bene, mentre scolavo l’ennesimo bicchiere e tiravo ancora qualche tiro dalle loro canne. Non era apprensione. Adesso lo so. Si aspettavano che io crollassi.

Siamo usciti, siamo andati in un locale. Abbiamo continuato a bere e fumare. Abbiamo ballato.

Adesso siamo in macchina, mi stanno accompagnando a casa. Uno di loro, quello seduto al posto del passeggero anteriore, si è voltato verso di me e mi ha chiesto cosa pensa il mio ragazzo di tutto questo. Ho risposto che non pensa a niente, ho soltanto fatto una serata tra colleghi. Il suo sguardo si è indurito e mi ha detto: “Io non lascerei mai uscire la mia ragazza per fare una serata del genere. Come credi di passare?”

E con questa frase tutto si è rivelato, il trucco è stato svelato. Volevano farmi crollare. Volevano approfittarsi di me, del mio corpo. Volevano soltanto che io diventassi un corpo, questo corpo che non fanno altro che desiderare ogni volta che mi vedono.

Mi difendo, dico che tutto sta nel capire le intenzioni delle persone, che le mie intenzioni erano assolutamente oneste e trasparenti. Ma forse non mi credono e allora decido di rimanere in silenzio. Mi agito, ma non voglio darlo a vedere. Voglio tornare a casa sana e salva.

Appena scendo dalla macchina, li saluto con una mano. Sono le cinque del mattino. Per fortuna non sono crollata. 

Una volta a casa, davanti allo specchio del bagno, scoppio a piangere. Mi sento in difetto perché non sono stata considerata al loro pari, una persona con cui fare una serata. Mi sento in difetto per non aver compreso l’inganno.

Ma adesso basta.

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

L’appuntamento è andato bene. Sento una sensazione di calore avvolgermi. Mi sono guardata allo specchio per tutto il tempo e, no, sono sicura che non si notasse niente. Lui è alto, bello. Siamo una bella coppia. Oddio, che stupida, parlo già in questo modo. È soltanto il primo appuntamento e nemmeno ci siamo baciati.

Ma poi ci baciamo. Tocco delicatamente il suo viso e lui mi attrae a sé. Maledetti cappotti e maglioni pesanti. Vorrei già sentire la sua pelle attaccata alla mia.

Mi chiede se ci rivediamo. Gli dico di sì, ma che prima gli devo dire una cosa. Glielo devo dire. È già troppo tardi e prima sarebbe stato troppo presto. Ma adesso mi ha conosciuta, mi ha vista, quindi ha modo di…

Glielo dico. Il suo sorriso scompare. Trema, si tocca la bocca. Gli dico che non è niente di diverso da quello che ha già fatto, che io sono una donna…

Sbotta, mi chiama frocio di merda e quelle parole mi feriscono come coltelli affilati.

Gli dico che no, non sono frocio, sono una donna etero, ma che sono nata nel corpo sbagliato.

Comincia a urlare, a insultarmi. So che calmarlo è impossibile. La gente mi guarda, mi giudica. Mi sento il fenomeno da baraccone di questa città.

Faccio dietrofront, me ne vado, mentre lui mi urla addosso le peggio cose. Scoppio a piangere, mi copro con la sciarpa la faccia. Voglio scomparire e non essere riconosciuta. Per sempre.

Ma allo stesso tempo, cavolo, voglio così vivere. Mi fermo. Prendo fiato. Mi guardo intorno, mi guardo le mani. Perché dovrei continuare a odiare il mio corpo? Io amo il mio corpo. Io voglio amare il mio corpo.

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

Il mio capo mi ha chiamata nel suo ufficio. Ogni volta che entro e chiudo la porta alle spalle, mi percorre un brivido dietro la schiena. Fa allusioni, domande personali, private, che io svio e scavalco, che interrompo con altre domande e riferimenti al lavoro. So che per lui è un gioco a rincorrersi. Per me si tratta di sopravvivenza.

Questa volta non mi lascia nemmeno il tempo di sedermi davanti a lui, di farmi scrutare dai suoi occhi viscidi, che subito mi dice che ha saputo di me. Gli chiedo cosa ha saputo. Mi dice che sa che non esco con gli uomini, che avrei dovuto dirlo subito.

Una sensazione sinistra mi striscia sotto pelle. “Perché avrei dovuto dirlo subito? È la mia vita privata.”, dico, sapendo che ieri ho rilevato a un collega, durante un aperitivo di gruppo, che non ero in alcun modo interessata al genere maschile. La mia vita privata, sì, ma mostrata. La mia vita privata depredata.

Si appoggia allo schienale della sedia. Mi guarda fisso. Ha le mani incrociate. Mi dice: “Adesso che me ne faccio di te?”

Gli chiedo spiegazioni. E lui mi dice che era convinto che anche io fossi interessata a rimanere lì. So a cosa illude. Voleva scoparmi, questa è la prova provata. E adesso? Che fine potrò fare?

Da questo momento vengo esclusa dai progetti. Lavoro male, i colleghi mi odiano, io odio tutti. Non passano molti mesi prima che il capo mi richiama nel suo ufficio e senza guardarmi in faccia mi dice che non hanno più bisogno di me. Hanno un alibi per mandarmi a casa: il mio rendimento negli ultimi mesi.

Esco dall’ufficio in lacrime, umiliata. Quando guardo il portone, mi sale una rabbia incontrollabile e stringo i pugni.

Non voglio più rimanere in silenzio. Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

Il sangue che gocciola sulla mia camicia bianca è una macchia che si allarga e prende spazio. Sono più preoccupata per la mia ragazza, anche lei pestata da quel branco di coglioni che sono saliti sull’autobus qualche fermata dopo la nostra.

Ci stavamo baciando. E loro ci hanno chiesto di partecipare, poi di continuare a baciarci per il loro stupido intrattenimento. Non valiamo più di un video porno. Ho detto loro di andare al diavolo e uno, sempre più vicino, mi ha tirato un pugno in faccia. A quel punto è partita la piccola rissa.

Ribollo di rabbia e di vendetta. Il mio corpo, la mia esistenza, non sono un video pornografico su cui farsi le seghe. Il mio corpo non esiste come intrattenimento dell’esistenza eterosessuale. 

L’autista, durante la colluttazione, si è fermato e ha chiamato la polizia. Mi sono fatta fotografare cercando di nascondere la vergogna che istintivamente provavo. Mi sono ripetuta per tutto il tempo: “Vergognatevi voi per quello che avete fatto, fottuti coglioni.”

La mia ragazza piange a dirotto. Mi dice che non vuole più farsi vedere in pubblico con me, che non è un posto sicuro per noi, che dovremmo nasconderci d’ora in poi, essere discrete.

La rabbia mi travolge ancora di più.

Non voglio più la resistenza. Non voglio più rimanere impassibile e immobile, sotto ogni colpo. Non voglio più rimanere in attesa. Non voglio sentirmi più fortunata se riesco ad evitare la violenza.

Non è più resistenza. È ribellione.

È guerra.

 

Oggi

Frammento di un manifesto

Parlare non è servito. Appellarci al primato dell’educazione non è servito. Cercare un dialogo non è servito. 

Allora, dato che le parole e la cura non sono servite, oggi impugniamo le armi. È guerra.

[…]

Non vogliamo più essere donne descritte dalle mani di uomo.

Non vogliamo più essere donne trans oppresse dalle mani di un uomo.

Non vogliamo più essere donne lesbiche invisibili per via di un uomo.

Non vogliamo più essere femmine di altra specie uccise e sottomesse per godimento di un uomo.

[…]

Non vogliamo più che la terra sia oggetto di proprietà di un uomo.

Non vogliamo più che le nostre vite vengano definite dall’esistenza, dai sogni, dai desideri di un uomo.

Vogliamo la libertà.

[…]

Vogliamo essere donne potenti che afferrano, creano, curano, rispettano, vivono in libertà e sintonia con le specie umane e non umane.

Vogliamo essere donne che si mettono al pari delle specie non umane.

Vogliamo essere donne che vivono non opprimendo la Terra e le specie umane e non umane.

Se è necessario distruggere per fare spazio, eliminare per correggere, usare la violenza per costruire un mondo di pace, lo faremo.

[…]

Oggi è guerra per la pace di domani.

Oggi combattiamo per la liberazione di domani.

 

Domani

Noe si è addormentata sul mio braccio. Le stavo leggendo il Manifesto di Liberazione alla vigilia della Scelta del Nome. Chiudo il volume sottile e ormai slabbrato dal tempo e lo poso sul divano su cui siamo sedute. La prendo in braccio. Oh, come pesa. È arrivato il tempo in cui la mia schiena non regge più il peso del suo corpo, in cui diventerò solo un’osservatrice della sua vita e non la sua guida, in cui la mia mano non stringerà costantemente la sua, ma i miei occhi dovranno seguire il suo percorso a distanza. 

Sospiro tra i suoi capelli corti prima di metterla nel suo letto e rimboccarle le coperte. Ma proprio adesso apre gli occhi, come se il breve sonno in cui è caduta le avesse portato altri pensieri. 

“Mà”, dice, sfregandosi la faccia con le mani. “ma perché è stato necessario l’uso della violenza?”

È una domanda difficile a cui dover rispondere. Raccolgo le idee, ma alla fine decido di essere onesta. “Eravamo tanto arrabbiate.”

Lei guarda il soffitto, ci pensa un po’. “Tu mi hai sempre detto che la violenza è una cosa brutta.”

“Ed è così”, le accarezzo il viso, come per sottolineare che ha ragione, ma anche per darle conforto. “Ma in quel momento si è rivelata l’unica via di salvezza. Era un periodo in cui una donna era definita violenta anche soltanto perché diceva no.”

“Non capisco cosa tu voglia dire.”, mi dice Noe, appoggiandosi sui gomiti. È di nuovo sveglia, ho di nuovo la sua attenzione.

“Sai”, le dico, dopo un sospiro. “prima della Grande Rivolta, c’è stata una forma di ribellione. È stata molto tiepida rispetto a quei dieci anni. Le donne si sono riversate in strada, per le piazze e hanno chiesto di essere libere di utilizzare il proprio corpo.”

“Lo hanno dovuto chiedere?”, mi risponde di rimando la mia giovane interlocutrice.

Annuisco. Capisco bene che possa essere incredibile per lei, che è nata e cresciuta libera. 

Noe scuote la testa, contrariata. “Da diventare matte.”

Mi porto le dita alle labbra. “Già, in un certo senso.”

“E quindi, scusami, i diritti non sono stati acquisiti, ma concessi.”

Annuisco nuovamente, questa volta in modo più palese. “È per questo che la Grande Rivolta si è manifestata. Se mi concedi un diritto, non mi stai dicendo che sono una persona libera indipendentemente da te, ma grazie a te. Chi ti concede un diritto, può togliertelo in qualsiasi momento. Era necessario invece annullare del tutto questo squilibrio di potere. E l’unico modo per risvegliare le coscienze e costruire qualcosa di nuovo, è stato usare la forza.”

Noe ci riflette un attimo. “Ma non avrebbero potuto parlare? Educare le persone.”

Ridacchio a bocca chiusa e cerco di essere modesta nella mia risata, non voglio che la sua riflessione sia sminuita. “Certo, è quello che è stato fatto per quasi 150 anni e forse anche molto di più, ma non abbiamo abbastanza testimonianze storiche per dirlo.”

“E non è servito a niente?”, chiede, stupita.

Scuoto la testa.

Noe annuisce. “Bé, ora capisco. Credo che anche io sarei diventata violenta se mi avessero voluto togliere ciò che avevo conquistato.”

Mi volto verso di lei. Ha centrato il punto. “Proprio per questo tutte le persone socializzate come donne e sottomesse a un mondo patriarcale, hanno preso in mano le armi di guerra e hanno combattuto per la propria liberazione.”

Noe ci riflette, si mette a sedere, incrocia le gambe. “Non riesco a immaginarmi un mondo diverso da questo. Deve essere stato terribile quel periodo.”

“Lo era.”

“Tu lo hai vissuto?”. Sento la sua mano calda toccarmi il braccio. 

“No, io no. O meglio, sì, ma ero molto piccola. Mia madre, tua nonna, ha combattuto anche per me.”

Noe adesso si sposta sulle ginocchia, per essermi più vicina. “Puoi raccontarmi di nuovo com’è andata?”

Guardo fuori la finestra, è notte fonda. “Domani, adesso vai a dormire.”

“Prima della Scelta del Nome?”, domanda.

Annuisco di nuovo. “Prima della Scelta del Nome.”

Ritorno in salotto, mi tuffo sul divano. Prendo il Manifesto di Liberazione. Leggo la data. Anno 2030. Vorrei che tutte le donne della Grande Rivolta sapessero che adesso qui siamo libere.

Alla fine mi sono addormentata sul divano. È Noe a svegliarmi, agitata ed eccitata per la grande giornata che l’aspetta. Sono emozionata per lei, ma anche malinconica. Ricordo ancora il giorno della mia Scelta. È stato un momento intenso, vivo.

Mi alzo dal divano e insieme usciamo dalle nostre stanze. Dopo un lungo corridoio, accediamo alla cucina. Le persone già presenti, fanno un grande applauso a Noe per il suo grande giorno. La stringono e la baciano. 

Oggi non è il nostro turno in cucina, quindi possiamo attingere a tutto ciò che è stato preparato. Prendo due piatti, li riempio delle pietanze e mi siedo al tavolo con Noe. Accanto a noi ci sono Gilda, una vecchissima donna che ha vissuto la Grande Resistenza e Amalia, che mi guarda con occhi attenti da qualche tempo e che ha scatenato in me una certa curiosità.

Noe addenta il suo pane con voracità e con la bocca ancora piena mi dice: “Devi raccontarmi della Grande Resistenza.”

Le indico Gilda con il naso. “Credo che siamo vicine alla persona giusta.”

Allora Noe, con quel suo entusiasmo così giovanile, le domanda di raccontare tutto ciò che ricorda. Ridiamo tutte a bocca aperta per il suo atteggiamento entusiasta, perché ci trasmette così tanta allegria e speranza. È così bello sapere che abbiamo contribuito a costruire un mondo in cui ogni persona può esprimere la propria individualità.

Gilda sospira, invece, malinconica. “Ah, no, non ti dirò tutto ciò che ricordo. Alcuni ricordi sono così brutti che non vorrei potessero cancellarsi dalla mia testa. Ti posso raccontare ciò che ti sarà utile per oggi.”

“Voglio sapere tutto.”, protesta Noe. “Dall’inizio.” È così decisa.

“Saprai il necessario.”, ribatte Gilda. La guarda. “Tutto è iniziato con un taglio netto di capelli, collettivo.” 

E comincia a parlare.

Quando rientriamo nelle stanze, Noe mi afferra la mano. Mi volto a guardarla. Ha lo sguardo triste. Dov’è finito l’entusiasmo che aveva fino a poco fa? Le chiedo cosa succede, non vorrei che il racconto di Gilda l’abbia scossa più del dovuto. La testimonianza diretta è sempre più difficile da digerire. Per quanti filtri possano usare le persone direttamente coinvolte negli eventi, questi non saranno mai spessi come chi ne ha sentito soltanto parlare.

“Il racconto di Gilda è stato triste.”, confessa, confermando i miei dubbi, e grosse lacrime le sporcano gli occhi.

“Parlami della tua tristezza.”, le rispondo.

A questo punto le lacrime scendono giù sul viso, una dietro l’altra, come se ogni goccia volesse raggiungere l’altra. “Avrei preferito sapere che nessuna persona è morta durante la Grande Rivolta. Avrei voluto che Gilda mi avesse detto che gli uomini accolsero le critiche e le richieste e che… e che… insieme…”

Mi abbasso sulle ginocchia, l’abbraccio e lei mi stringe forte. “Oh, lo so. Abbiamo perso tutte fratelli, padri, zii, compagni. Ma eravamo stanche di perdere sorelle, madri, zie, compagne. E anche di sentirci il pericolo.”

Noe non smette di piangere. Mi bagna la spalla. Si allontana da me, mi guarda. “Quante persone sono state uccise?”

Ci rifletto su. “Non so di preciso. Ma tante.” Quella quantità copiosa e indefinita la fa sussultare. So che è un duro colpo, ma non posso nasconderle la verità. “All’inizio sembrava l’unica soluzione. Uccidere gli uomini e anche le donne che si opponevano alla Grande Rivolta è stata l’ultima soluzione estrema.” Sospiro. “Sono state uccise tante persone, è vero. Ma dopo qualche mese, una parte di noi si è come risvegliata e abbiamo compreso che non era giusto. Ci siamo radunate in assemblea, di nuovo e abbiamo costruito questa contrada, che è un luogo di pace.”

“Perché dici sempre noi. Tu eri solo una bambina, mi hai detto.”, protesta, incrociando le braccia. Forse odia la possibilità che io sia stata violenta.

“È vero, io sedevo sulle braccia di mia madre. Ma in qualche modo ero lì con lei e so che lei ha combattuto per me.”

Noe riflette. Guarda fuori dalla finestra, al di là dei confini, oltre il paradiso che è stato costruito per lei. “Ma là fuori…”. 

“Non possiamo cambiare tutto il mondo, Noe.”, intervengo, perché so già cosa sta per dire. Non abbiamo salvato tutto il mondo. Abbiamo salvato soltanto una piccola parte di esso. Ma è già un miracolo. “Possiamo cambiare però il nostro mondo, la nostra vita. E scegliere. Solo così possiamo essere l’alternativa, la possibilità. Altre persone possono sentirsi ispirate dal nostro modo di vivere, dalle nostre azioni, da…”

“Ma…”

Le prendo il mento con una mano, così che possa guardarmi. “Tu oggi sei qui, sei libera e sei libera di scegliere il tuo nome oggi. Grazie a questo potresti non chiamarti più Noe, potresti scegliere il tuo genere, il tuo destino, il tuo posto nel mondo. Potresti scegliere cosa preferisci fare qui, in comunione, senza opprimere alcun essere vivente umano e non umano.”

“Ma gli uomini…”

“Gli uomini stanno nascendo da noi, stanno nascendo qui. E un giorno loro diventeranno adulti consapevoli, liberi e anche loro potranno scegliere di non usare il potere per opprimere. Potranno scegliere ogni giorno di vivere in questo mondo costruito dalle donne per tutte le specie umane e non umane libere.”

“Questo vuol dire che ci sono persone che oggi sono nella stessa condizione del passato. Specie non umane che vivono sotto sfruttamento e vivono soltanto per diventare intrattenimento, arredamento, abbigliamento e cibo.” Le trema il labbro inferiore mentre parla. Non accetta di vivere nella libertà, che tuttavia è sempre sotto attacco dal mondo esterno, da quel mondo che continua a lottare tra liberazione e oppressione.

È una sconfitta, lo so, vorrei confessarglielo. Vorrei dirle che avere una parte di mondo non vuol dire aver liberato tutte le soggettività. Vorrei dirle che siamo ancora in uno stato di perenne agitazione, che dobbiamo difenderci dagli attacchi esterni, che stiamo cercando ancora di trovare accordi politici, commerciali, di dimostrare che il nostro modo di vivere antispecista, anticapitalista e libero porta pace e prosperità. Ma la strada è ancora lunga. È sempre difficile immaginare un mondo diverso da quello in cui siamo immersi.

La guardo. “Oggi è un giorno importante proprio per questo, Noe. Scegli il tuo nome, ma anche qual è il tuo posto nel mondo. Scegli chi essere in questa società, come essere utile per noi, per te stessa. Scegli il tuo posto.”

Stringe i pugni. “Voglio combattere per la libertà di tutti gli esseri viventi, per quelli che ancora stanno soffrendo. Non riesco a pensare che io sono qui e qualcuno… ancora…” Scoppia in lunghi singhiozzi.

L’abbraccio forte. “Puoi sempre cambiare idea.”, le ricordo. Ogni anno, infatti, dal momento della Scelta, siamo tenute a tornare al Cerchio per confermare la nostra decisione o farne una nuova. “Sei sempre libera di scegliere un altro posto. Sei libera di essere stanca. Sei libera di andare, di tornare. Sei e sarai sempre libera.” Voglio ricordarglielo sempre. Voglio dirle sempre quanto la sua libertà sia il bene più prezioso.

Noe annuisce, si asciuga le lacrime. Mi guarda. “Vorrei che le donne di ieri e quelle di oggi che non sono qui sapessero che oggi e qui possono essere libere.”

Mi vengono le lacrime agli occhi. L’abbraccio forte, questa ragazzina così forte e intelligente, così sensibile e acuta. “Anche io.”

Nel Cerchio Noe sceglie il suo nome. Adesso si chiama Huriya. Ha deciso di indossare le armi e combattere. Ha deciso di studiare la storia e la politica per trovare un modo per comunicare con il resto del mondo, di stringere accordi ed alleanze. Ha deciso di studiare le lingue per avere la capacità di parlare con più persone possibili. Ha deciso di difendere la propria libertà e di permettere che altre persone siano libere. 

Huriya significa libertà.

A CURA DI

Ilaria Nassa

Toscana bastarda, come piace definirmi, dal 27 maggio 1992. Fuggo a Roma per trovare me stessa, dove mi laureo con una tesi postfemminista al corso di Laurea Magistrale in Informazione Editoria e Giornalismo. A Roma frequento l’ambiente militante e femminista, poi mi sposto a Milano per ragioni economiche, dove comprendo l’importanza di parlare di anticlassismo e di divulgare i concetti femministi in modo facile. Mi muovo di nuovo a Bologna dopo la pandemia e poi di nuovo a Firenze. Scrivo, leggo, studio.

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